L'esperienza degli immigrati è sempre stata difficile, indipendentemente dal paese. Venendo da adulto in un nuovo paese con una nuova cultura, è singolarmente difficile - per alcuni impossibile - cambiare completamente i loro punti di vista e diventare completamente acculturati e "nazionalizzati". Per un bambino, è forse più facile perché i modelli di comportamento che si sviluppano negli anni non sono così radicati, i pregiudizi sono ingenui e l'inserimento in una comunità di coetanei è più facile poiché i contemporanei del bambino sono ugualmente ingenui. Ma per un adulto la situazione è molto più complicata. In particolare a livello di linguaggio, la comunicazione quotidiana è un'esperienza che mette alla prova. [...]
I recenti provvedimenti adottati dal Governo italiano in materia di “sicurezza”, tra cui il decreto legge n. 92/2008 e la legge n. 94/2009, pongono all'ordine del giorno la creazione di un “diritto penale della disuguaglianza”, dal forte impatto simbolico ma dalla dubbia efficacia pratica. Il decreto legge del 2008 punisce più gravemente, con un aumento di pena pari a un terzo, qualsiasi reato commesso da chiunque risulti essere irregolarmente presente sul territorio nazionale (condizione diversa da quella di “clandestino”, legata all'ingresso nel territorio in violazione delle vigenti norme sull'immigrazione). La legge del 2009 introduce come reato la semplice condizione di “irregolarità” dello straniero rispetto alle norme sui visti e/o sui permessi di soggiorno. Queste modifiche del Codice Penale rispondono alle indicazioni delle forze che costituiscono l'attuale maggioranza di governo, in particolare della Lega Nord che sulla guerra all'immigrazione clandestina ha costruito le proprie fortune elettorali. [...]
L’agricoltura italiana si sta popolando sempre più di lavoratori d'origine straniera. Immigrati di varie nazionalità sono impiegati nelle mansioni e nei settori più disparati, soprattutto in arboricoltura e in orticoltura, ma anche negli allevamenti e nel taglio dei boschi. È ragionevole pensare che essi costituiscano quasi il 20% della manodopera agricola rilevabile statisticamente, con un’alta percentuale di stagionali diminuita fino al 2005 e poi risalita (INEA, 2009). Si tratta di una concentrazione significativa, visto che gli stranieri presenti in Italia costituiscono circa il 7% della popolazione totale. Alcuni fanno parte più o meno stabilmente delle imprese agricole, fino a diventare imprenditori; altri spariscono nel nulla. Oggetto di sfruttamento e di razzismo, quando si ribellano rischiano di essere identificati e, se privi di documenti validi, espulsi. La loro presenza è per lo più invisibile, diventando di dominio pubblico solo in occasioni di emergenza sociale, come la rivolta di Rosarno del gennaio 2010.
Le ultime cronache dalla Piana di Gioia Tauro, le fughe di notizie dalle campagne della Puglia, i rapporti della missione di Medici Senza Frontiere sulla condizione dei braccianti agricoli nel Mezzogiorno (Medici senza frontiere, 2008), mettono in luce gravi emergenze sociali nelle campagne italiane. Più che casi locali, da lasciare a loro stessi, questi fatti rappresentano la superficie di un continente sommerso, il segnale d'allarme di un mondo rurale in crisi e in piena trasformazione. Essi danno così la spinta per decriptare una realtà complessa, sfidando se necessario schemi metodologici e interpretativi consolidati. [...]
Nel corso degli ultimi due decenni, la produzione di migranti “irregolari” si è affermata gradualmente come asse portante del nostro sistema sociale, così come il circolo irregolarità- sanatorie è assurto a perno tanto delle logiche della legittimazione politica, quanto di quelle del mercato (Santoro, 2006). Sul primo versante, la repressione dei migranti diventa una delle principali arene politiche in cui si contendono i voti degli elettori; sul secondo versante, la condizione di illegalità dei migranti favorisce il loro impiego con una remunerazione irrisoria e consente non solo la sopravvivenza di imprese che non potrebbero permettersi di retribuire regolarmente i loro lavoratori, ma soddisfa anche bisogni primari delle famiglie italiane, a cui il welfare state non è assolutamente in grado di rispondere. In parallelo, si è diffuso una sorta di razzismo economicistico strisciante che, partendo dalla visione dei migranti come “risorse” indispensabili per il sistema produttivo di beni e servizi e, allo stesso tempo, soggetti esclusi dai circuiti assistenziali e previdenziali, ha impercettibilmente condotto alla creazione di un modello di inclusione sociale neo- schiavistico. [...]
Oltre il senso comune: il sistema delle discriminazioni razziali.
I discorsi e le pratiche comuni di lotta contro le discriminazioni risentono di una specifica cultura giuridica, quella liberal-democratica, articolata su determinati presupposti: la neutralità della legge e del sistema giudiziario, l’universalismo dei diritti, la legittimazione delle norme attraverso procedure, un'idea di persona relativamente astratta rispetto ai rapporti di forza vigenti nelle istituzioni, sui mercati, nelle sfere pubbliche, nelle interazioni quotidiane. In questo quadro le discriminazioni in genere, e quelle razziali in particolare, appaiono come deprecabili e quasi inspiegabili eccezioni alla regola, di cui le vittime possono e devono essere risarcite per via giurisdizionale. La maggior parte degli operatori del diritto, ma anche dei sinceri democratici che difendono i diritti dei migranti e delle minoranze, tende così a rifiutare l’idea che il razzismo possa essere “parte della struttura delle nostre istituzioni legali” (Harris, 2001), che “il razzismo sia la norma e non un’aberrazione” (Delgado, Stefancic, 2001), o che il diritto antidiscriminatorio delle cosiddette “azioni positive” sia, nel migliore dei casi, limitato rispetto all’effettiva profondità del problema. [...]
Un proverbio creolo dice: “dietro una montagna c’è un’altra montagna”. Negli ultimi anni Haiti è passata da una tragedia all’altra, in una spirale di povertà, violenza e disperazione. Per la maggioranza degli Haitiani è stata una scalata infinita di mille montagne. Il terribile terremoto del 12 gennaio è solo l’ultima di queste montagne.
La missione di noi “operatori umanitari” è quella di rendersi inutili: di lavorare per fare sì che il nostro lavoro non sia più necessario. È questo che dovremmo sempre tenere a mente fin dal primo giorno della nostra missione in un paese straniero. La mia speranza quando ho lasciato Haiti, nel dicembre del 2006, era di vedere il paese riprendere in mano il proprio destino eliminando gradualmente la necessità della presenza di aiuti umanitari. Il terremoto che ha colpito Haiti è una terribile tragedia che cancella, almeno nell’immediato, questa speranza. [...]
I mandarini, le olive, le arance non cadono dal cielo. Sono delle mani che li raccolgono. Lo hanno ricordato con dignità e orgoglio, nel loro appello al governo italiano, i lavoratori africani cacciati a fine gennaio da Rosarno e poi rifugiatisi a Roma, senza lavoro, senza un posto dove dormire, senza i loro bagagli, con le ultime paghe rimaste nelle mani dei loro sfruttatori. A distanza di tre mesi dai drammatici fatti di quei giorni, dobbiamo a questi lavoratori, a tutti i migranti che vivono in Italia e ai loro figli una riflessione seria e distesa, che ci aiuti a capire meglio dove stiamo andando e, soprattutto, se e come sia possibile cambiare rotta. Passati i clamori della cronaca, i problemi di governo dei fenomeni migratori restano inalterati. Essi vanno compresi a fondo se si vuole evitare che dalla disumanizzazione e dallo sfruttamento del lavoro migrante, spinto fino alla schiavitù, si generino nuove esplosioni di violenza. [...]
Come può una lezione di lingua diventare una proficua occasione di conoscenza reciproca e d’incontro tra persone diverse per lingua, cultura, idee, valori, sensibilità? Come può stimolare studenti con bisogni, motivazioni, stili di apprendimento diversi a condividere una dimensione narrativa fatta di autobiografia e di ascolto della storia dell’altro? Come può trasformarsi in un luogo privilegiato per la messa in atto di tecniche di ascolto attivo, di comprensione empatica, di gestione cooperativa e di trasformazione costruttiva delle conflittualità? Un approccio glottodidattico di tipo dialogico può arricchire l’insegnamento linguistico di tutte quelle dimensioni formative richieste da una società multietnica come la nostra, caratterizzata da una notevole pluralità linguistica e culturale.
Gli studi sulla pace possono mettere a profitto la distinzione, impiegata dai giuristi, tra principi e valori. Considerare la pace solo come un valore finale vuol dire ammettere che essa possa stabilirsi anche con mezzi non pacifici; considerarla invece come un principio implica che essa condizioni fin dall’inizio la scelta dei mezzi. Ma per considerare la pace come un principio occorre ammetterla tra le condizioni strutturali dell’esistenza e della convivenza umane. È l’antropologia in fin dei conti, ovvero l’idea che abbiamo dell’uomo, a fondare la nostra concezione della pace.
Che la Siria non fosse la Tunisia o l’Egitto o addirittura la Libia, e che non sarebbe stato altrettanto facile deporre il regime di Damasco era chiaro a chiunque avesse un minimo di conoscenza della regione, e del Paese in particolare. Dopo un anno e mezzo di conflitto sociale, poi trasformatosi velocemente in guerra civile e regionale, sembra che questa constatazione stia prendendo piede anche nelle capitali europee, in Turchia e negli Stati Uniti.
Nella situazione attuale, la caduta del regime di Bashar al Asad comporterebbe un disordine politico e una frammentazione territoriale difficilmente governabile in tempi brevi: né la Turchia, né la Nato, né le monarchie del Golfo hanno ad oggi le risorse e soprattutto le capacità politiche per gestire una situazione post- Asad, e nelle capitali occidentali sembra farsi largo l’idea che i costi della transizione siriana verso le magnifiche sorti progressive del capitalismo di libero mercato e della democrazia rappresentativa non sarebbero sostenibili alla luce dell’esperienza irachena, o della stessa Libia. La crisi economica e le trasformazioni del politiche dell’Asia stanno imponendo delle sfide e delle priorità diverse. Inoltre la Siria confina con Israele, la cui stabilità dei confini è ritenuta intoccabile. E il rischio della presa di potere ad opera di gruppi fondamentalisti islamici in alcune parti della Siria è ritenuta reale e non auspicabile: non certo per ragioni di credenziali democratiche e liberali, ma perché le attività di queste forze sono difficilmente controllabili e possono ritorcersi contro i loro stessi sponsor occidentali e regionali.
Per le diplomazie occidentali si ripresenta dunque l’annoso problema di cosa fare della Siria, o meglio di come sostituire un regime ostile con uno più allineato ai propri orientamenti strategici. Che siano il coinvolgimento in atti terroristici prima, le armi di distruzione di massa poi, e ora la nuova “responsabilità di proteggere”, ogni occasione è sfruttata per mettere alle strette il regime del Partito Ba’th e del suo Presidente Bashar al Asad: e questo indipendentemente dalla verifica concreta delle responsabilità di Damasco per azioni di cui può anche essere sospettata legittimamente. Del resto, le esperienze recenti mostrano come la politica internazionale non abbia bisogno dell’accertamento dei fatti per giustificare nuovi interventi militari.
Il regime di Damasco rimane un nemico, o quantomeno un rivale strategico, per le diplomazie occidentali e per i regimi conservatori del Medio Oriente: la sua alleanza con l’Iran e Hizb’allah, la posizione nei confronti di Israele e l’opposizione ai piani egemonici statunitensi nella regione fanno di Damasco un ostacolo rilevante alla trasformazione del Medio Oriente in un’area del tutto allineata alle strategie globali occidentali. La sua rilevanza risiede in una combinazione di centralità geografica nelle linee di scambio di merci, persone ed energia dall’area del Golfo Persico verso l’Europa, e di importanza nella politica regionale, dato il coinvolgimento nel conflitto arabo-israeliano e nella politica araba e medio-orientale in generale. La presenza di così tanti fattori diversi riflette la complessità della società siriana. E forse è proprio l’incapacità, o semplicemente la non volontà, delle classi dirigenti occidentali di comprendere e valutare questa complessità che rende il Paese arabo così problematico.